venerdì 21 ottobre 2011

Circolazione e metastasi

Il testo che segue, trattando di una metafora, fa più di una concessione al linguaggio figurato.

Da due milleni, quanto meno, il corpo umano è una cassetta di metafore per parlare del corpo sociale.
Si sa, senza metafore non si comunica, il linguaggio stesso è metaforico. E pure la scienza non può farne a meno, nella comunicazione extrascientifica, ma anche al suo interno, più o meno consapevolmente, nell'elaborazione e trasmissione di modelli, anche se gli scienziati più rigorosi sconsigliano una simile pratica.
Fatto sta che organi e funzioni del corpo umano hanno fornito spunto per parlare d'altro. Fino al corto circuito uomo-macchina. Dal Cinquecento si sono sbizzarriti nel ridurre il corpo umano a macchina, finendo ai nostri tempi nello scoprire l'umanità nelle macchine.
Economia e scienze sociali non sono state immuni da questo meticciamento.
La nozione stessa di "crisi" è importata dal linguaggio medico, e giusto a far tempo dal Settecento. Non stupisce allora che, ove si voglia parlare di circolazione monetaria, e eziandio finanziaria, si evochi la circolazione del sangue.
La metafora può istituirsi a vari livelli, dall'analogia all'omologia. Epperò la metafora suggerisce come le politiche degli Stati o degli organismi internazionali, crisi o non crisi, siano volte a favorire o ripristinare la pervietà del sistema circolatorio, magari con il fine di aumentarne la velocità di circolazione, pena la riproduzione stessa del sistema.
Talché, qualsiasi medico di pronto soccorso avrebbe concordato con i massimi tutori della circolazione monetaria, indicando la priorità di reintegrare la funzionalità del sistema bancario. Come per il corpo umano, la circolazione prima di tutto.

Ma, visto che di capitalismo stiamo parlando, la circolazione non viene a capo delle metastasi avanzate. Anzi, ne favorisce la proliferazione.

mercoledì 21 gennaio 2009

Senza citare

1. Un pensatore, giusto due secoli or sono, scrisse con un linguaggio non specialistico – ordinario, addirittura familiare – dello sviluppo delle attività umane, e senza riferimenti diretti a persone o a eventi. La circostanza non ne ha impedito la comprensione, e talora, addirittura, un ragionato biasimo.
Pensiero speculativo è stato chiamato quello che pretende di progredire senza correlati diretti. Conviene tralasciare qui di dire se ciò sia mai stato possibile, o sotto quali condizioni. È interessante invece proporre un discorso senza rimandi espliciti, che sia autosufficiente, e che prescinda, per di più, anche dagli esempi, dalle frasi idiomatiche e dalle metafore.
Impresa difficile, soprattutto accettando questa ultima condizione, perché la metafora è una duplicazione azzardata e parziale del mondo che certamente facilita anche se poi costringe ad assumere imposizioni sempre più restrittive, fino alla stasi. Senza contare che le metafore favoriscono l’irruzione incontrollata di figure e immagini che, come è ovvio, sostituiscono le parole con effetti sottrattivi e distruttivi enormi. Infatti, la produzione massiccia di immagini ha indebolito il discorso e sovvertito il rapporto con la parola, costringendo questa a una posizione subordinata e a una funzione meramente didascalica, senza che, per questo, le immagini abbiano potuto sostituirsi ai concetti.
Inoltre, con gli attuali sistemi di ricerca automatica è sempre più difficile tutelare i significati dei testi che pure l’autore rende pubblici. Esistono procedure in grado di individuare e trattenere testi, e quindi schedare i loro autori, a partire da sequenze di lettere e anche dalla frequenza con cui vi compaiono certe parole, pretendendo di cogliere significati, senza curarsi di quelli che vengono tralasciati.
È pur vero che è invalsa una pratica volta a depurare il linguaggio da persistenze culturali e ideologiche – essenzialmente relative a differenze etniche o sessuali, in minor misura a differenze sociali –, ma tale pratica ha finito con il sostituire stereotipi con stereotipi, ancorché meno caratterizzanti, ed è quindi da evitare.
Ciò che in questo scritto si vuol fare, con molta circospezione, è di mostrare come sia possibile affrontare qualsiasi tema, senza il timore che esso possa essere rilevato dalle procedure cui si accennava, non solo per una maggiore tutela dell’autore, ma anche di coloro che abbiano saputo individuare l’oggetto della comunicazione e la forma del ragionamento. Più che un esercizio di stile è un omaggio alla scrittura, alla sua capacità di cogliere ed articolare il reale in ogni sua parte, ridicendolo in qualche sua connessione, sottraendosi nel contempo all’uso di luoghi comuni.

2. Impresa difficile, ma non pericolosa come quella di dichiarare i propri riferimenti intellettuali, nonché il tema del proprio interesse. Qualsiasi esso sia, si è costretti a difendersi dall’accusa di parlar d’altro, di offendere sensibilità, identità e appartenenze particolari, ma soprattutto interessi costituiti, in un mondo che sempre più pratica la mera contrapposizione non già come strumento ma come fine. Si pensi all’uso smodato degli ossimori, usati sempre più intensivamente non già per mostrare lo stallo, ma proprio per imporre l’un termine a scapito definitivo dell’altro.
Un mondo cioè che sembra essersi avviato ad essere l’immagine di qualche scrittura rivelata, con i suoi miti ripetuti e con i suoi esiti fatali già fissati.
Orbene, si vuole qui che un discorso che chiameremo speculativo, pur consapevole di quante innumerevoli forme abbia prodotto l’evoluzione delle relazioni umane, si sforzi di prescinderne, come peraltro dalle emozioni e dai sentimenti – anche essi certo avvertiti.
Anzi, è proprio un sentimento di ripulsa e di sdegno che induce a scrivere queste pagine, un senso di fine della sopportazione, di totale annichilimento, che notizie recenti hanno acuito, e al quale si vuole dar forma senza che l’autore possa essere individuato, e con contenuti di cui non sia tenuto a rispondere una volta tratto in giudizio.
Quando il pubblico è immediatamente costretto a dividersi tra favorevoli e contrari, e non è concessa altra possibilità, prendere posizione diventa cosa grave. D’altra parte l’indicibile non può essere accettato. Per un pensiero libero non esistono parole che non devono essere pronunciate per imposizione religiosa, o perché qualche tradizione le sottrae e le rilascia solo agli iniziati. Perché indicibile è solo ciò che non può essere tradotto. Né ci si può contentare di formulazioni fissate una volta per tutte, di proposizioni imposte, pena la riprovazione da parte di sistemi vòlti alla riproduzione del generale consenso.
D’altra parte, ancora, è da rifiutarsi la scelta tra simulazione e dissimulazione, alternativa cara a una certa, esecrabile, tradizione di pensiero politico.
Si preferisce optare per una lunga e faticosa determinazione che permetta a chi scrive di lasciare tutta intera la responsabilità della comprensione a chi legge, rifiutando qualsiasi tecnica di convincimento, e scontando la drammatica soluzione di continuità inerente a ogni dialogo, non potendo essere mai sicuri che ciò che si trasmette arrivi nella sua interezza.

3. È stato già notato che, se le cose fossero come appaiono, non ci sarebbe bisogno di scienza. La circostanza ha peraltro propiziato il generale svolgersi delle religioni. Le quali, è il caso di ricordare, si sono sviluppate non soltanto con l’uso privilegiato dei miti ma soprattutto iterando la proposizione speculativa che, più che priva di presupposti, è piuttosto priva di contenuti. Più recentemente, il complicarsi della scienza ha propiziato la nascita di pseudoscienze autoreferenziali, nel campo della cura del corpo o della psiche, sollevate dall’onere della prova e che, in quanto tali, sono apparentate piuttosto alle religioni di cui spesso ripetono pratiche ed essenza, volte come sono a pratiche su ciò che si pretende immutabile.
Di narrazione in narrazione, sfruttando il potere ipnotico della litanìa e dei gesti ripetuti siccome automi, le religioni hanno imposto e riprodotto visioni del mondo tra loro incompatibili, ancorché soggette, però, a un progressivo ridimensionamento da parte di descrizioni controllate e condivise, grazie alla misura e al confronto. Un modo d’imporsi dell’uguaglianza formale davanti alla legge, dell’uguaglianza di tutti, senza interventi ad hoc.
In genere, le religioni, pur se territorialmente basate, in virtù della loro istanza assoluta, sono costrette ad aprirsi ad altre etnie accettando per il proprio propagarsi l’assimilazione. Anche le più rigide restrizioni alimentari, per salutari che siano, tendono ad essere sempre meno osservate. D’altra parte studi recenti hanno mostrato l’insussistenza della razza come categoria che abbia un correlato reale e pratico. Nonostante ciò, ci sono religioni o culture che continuano a riprodursi per linee interne, per linea paterna o per linea materna, non inclusive ma esclusive, incentrandosi su una pretesa trasmissione diretta che le rivoluzioni politiche degli ultimi secoli hanno voluto interrompere. Le linee di sangue sono entrate in crisi, sicché caste, tribù e dinastie diventano l’oggetto di ricostruzioni storiografiche, o di analisi etnologiche, ma non di rinnovati riconoscimenti da parte dei moderni ordinamenti.
La generale legge dell’evoluzione delle specie viventi non trova quindi, nelle religioni, un impedimento definitivo. L’apparentemente caotico movimento delle merci per cui le occasioni di scambio si moltiplicano, mentre attribuisce alle merci caratteristiche umane, trattando contemporaneamente gli uomini come merci, moltiplica le casuali unioni sessuali, limitando sempre più le segregazioni delle caratteristiche peculiari di una popolazione.
Sussistono tuttavia tradizioni che non solo riluttano all’invadenza della scienza o dell’evoluzione dei rapporti umani, politici e sociali, ma addirittura li sussumono, al fine di controllarli e indirizzarli. Assistiamo così a casi in cui i libri sacri vicariano le costituzioni politiche o non riconoscono le modificazioni storiche e geopolitiche mostrando di poter scotomizzare non solo l’altro che sussiste, ma anche il processo plurisecolare che si è frapposto. Per riprovevole che sia, tutto ciò va spiegato.

4. Conforma e condiziona più il sistema del produrre e consumare che non il sistema dei miti perennemente riproposti. Proprio per questo le responsabilità della letteratura sono evidenti. Troppo a lungo ha insistito sul destino, o sui condizionamenti che esercita il luogo, o sul valore catartico della vendetta e del sacrificio, attenta più a ciò che ritorna e permane, che non alle possibilità inerenti al continuo intricarsi delle comunità. Ultimamente, individuando e autonomizzando il delitto e l’omicidio, costituendoli a genere, prendendoli a esempio del negativo. Sono i letterati che sembrano avere a proprio esclusivo oggetto i miti e li scorrono come in un catalogo, e li rivisitano, come usano dire, e vi rovistano, pretendendo di ritrovarli in ogni quotidiano esserci. Oppure s’ingegnano a provare tutte le possibili combinazioni, e a enumerarle mostrando di credere di poter sopravanzare e prevedere quanto invece il reale produce con potenza da loro non immaginata. Più in generale, la letteratura si dispone a ritrovare, più che a trovare, e fa mostra di grande stupore quando la surrezione riesce.
Come pure evidenti sono le responsabilità di cui certa filosofia si carica allorquando assolutizza la parola, cercando di isolare le parole originarie, geroglifici si pretende, e prende a scavarvi e poi ad immergervisi per ritrovarsi in mano una radice, appunto, un miserabile etimo, quando non un’onomatopea, cioè un colpo di glottide. La filosofia della glottide, allora. Andando a ritroso non c’è altro che un dito che indica mentre un suono inarticolato assevera. Manca solo un gaio aforisma per archiviare.
Letteratura e filosofia fanno a gara nel ricacciare all’indietro le aspirazioni dell’umanità ancorando questa a miti e parole originari, ritrovandoli e ripetendole ogni volta, imponendo un ché di presuntamente primigenio. In questo convergendo con la natura e le finalità delle religioni. Pretendendo di essere, a un tempo, sapienti e atemporali.
Anche la storia non aiuta, condizionata com’è dalla memoria percepita come un inerte contenitore di eventi. Ma la storia non è somma di memorie individuali, né cronologia, né catalogo di biografie, né, tanto meno, palinsesto di sceneggiature per l’intrattenimento.
Letterati, filosofi e storici, tranne pochissime eccezioni, hanno privilegiato solo uno tra gli infiniti mondi, mostrando grande interesse alla stucchevole ripetizione dei rapporti umani, ma nessuno alla riproduzione dei rapporti con la natura.

5. Quando la realtà dovesse incaricarsi di smentire quanto la scrittura rivelata assicura debba prima o poi manifestarsi, gli iniziati entrano in un pericolosissimo stato di agitazione e di furia e tentano di abbattere con la forza quanto a loro sembra ostacolare il manifestarsi di un disegno divino, o meglio individuano come ostacolo l’elemento contiguo, così che ogni conflitto diventa l’occasione per uno scontro finale, apocalittico, è il caso di dire. Essendo certi che dell’alea viene a capo la profezia. La quale viene a capo anche di qualsiasi forma di patto tra uguali, anzi lo esclude. In alcune tradizioni è escluso addirittura un patto con la natura, nemmeno avvertita come matrigna ma come mero strumento, oggetto passivo di incursioni e devastazioni. Il preteso patto esclusivo con dio accomuna gli altri e la natura, e può essere fatto loro di tutto. Con la guerra.
Una simile ridicola circostanza diventa drammatica allorché la politica perde il suo primato sulla guerra, quando la guerra non punta più a raggiungere le condizioni per uno stato durevole di pace, ma si autonomizza dalla politica, e si eternizza come stato permanente di conflitto. Quando, soprattutto, il nemico diventa generico e fungibile, chiamato a rappresentare, ogni volta, il male.
Coloro che sono posseduti da una simile cieca unilateralità, per giustificarsi e impedire possibili mediazioni, gettano totale discredito sul nemico, non riconoscendogli ragioni, a cominciare da quella di esistere, e alcuna dignità, usando sistematicamente la menzogna. Ed è nemico chiunque non consenta.
In questa conclamata situazione, inani gli apporti di letteratura, filosofia e storia, si diceva, non solo la scienza politica ma il più generale apporto della scienza risulta inibito. L’attività degli intellettuali scientifici, per lungo tempo in larga misura libera all’interno delle istituzioni preposte alla riproduzione del sapere e tale da essere riferita a una comunità sovralinguistica, al cui interno era libera la circolazione dei principii e delle leggi, anche se non delle applicazioni, ebbene, tale attività è stata secretata, soprattutto quando l’industria della guerra ha sussunto e integrato la gran parte della ricerca e quando la privata intrapresa assume direttamente gli intellettuali scientifici, separandoli dalla loro comunità. Se poi il comando della ricerca coincide con quello della guerra, il circolo si chiude. La conoscenza di tutti è un limite che viene spostato inesorabilmente all’indietro.

6. La razionalità del reale, la sua dicibilità, la dicibilità delle relazioni materiali, soprattutto quando, ripetute, mettono capo a processi, trova ormai due limiti: il primo è il flusso di immagini che esclude la stabilità di un rapporto, e l’identità stessa non ne guadagna; il secondo è rappresentato dalle dichiarazioni assolute che non siano costituzionali.
Riguardo quest’ultimo limite, ci sono popoli che anche di recente si sono costituiti e sviluppati leggendo e commentando un unico libro, trovando in esso versetti alla bisogna, adatti, per la loro genericità, a qualsiasi situazione, dalla nascita alla morte. Ma un libro solo non esiste, come non esiste una sola parola. E i libri non parlano tra loro, se non per interposte e responsabili persone.
È oltremodo pericoloso scandire il tempo storico riconducendo la progressivamente crescente complessità delle forme ad apologhi e parabole, proprio come fanno certi popoli, il cui fine sembra essere quello di ricacciare all’indietro l’evoluzione, impedire che l’umanità si manifesti come convergenza e unità delle coscienze, pur nei diversi percorsi compiuti, anzi, proprio grazie a questi. Anche per scongiurare le situazioni in cui versano popoli peregrinanti negli interstizi della storia e delle società, spesso vittime, carichi di pesantissima eredità indivisa, cioè non condivisa.
L’equazione divinità uguale verità, allora, ha sempre meno senso, anche se la si assevera sui biglietti di banca che circolano universalmente. Ma, nemmeno i miti di risarcimento incentrati sul riprendersi gli attributi inconsapevolmente trasferiti, sono da considerarsi benevolmente. Insomma, rubare strumenti agli dèi o conoscenza a dio non porta bene, questo ci dice il mito.